sabato 31 marzo 2007

Quattro passi per Valencia

Per chi non lo sapesse, sono stato quattro giorni a Valencia.
Non solo paella, ovviamente.
Innanzitutto l’architettura di Santiago Calatrava e la sua imponente Città delle Arti e della Scienza: anche chi come me storce quasi sempre il naso di fronte alle costruzioni ipermoderne non può che restarne affascinato. Cinque straordinari edifici dalle forme “hi-tech”, come suggeriva qualcuno, che riescono comunque ad integrarsi nel tessuto cittadino senza snaturare il paesaggio di una città così carica di storia.
La sera poi, quando si accendono le luci e tutte le strutture si specchiano nelle superfici d’acqua che circondano questo polo futuristico, lo spettacolo è da mozzare il fiato.
Poi L’America’s Cup strappata – meritatamente – a Napoli, che rappresenta uno dei principali motori del fermento che pervade l’intera città.
E ancora Las Fallas che abbiamo perso per qualche giorno, con enormi costruzioni di polistirolo (mi suggerisce la valenciana) che prendono fuoco in un grandissimo e rapido falò notturno nelle principali piazze. Davvero un peccato non aver partecipato. Poco male, però: l’atmosfera di festa e l’alto tasso etilico non c’è di certo mancato.
Valencia: soprattutto un centro storico, pulsante, vivo, circondato da quello che prima era un fiume, ed oggi è un immenso giardino che sorge sul suo letto asciutto: i giardini del Turìa.
Le due imponenti torri del Serrano, con le porte che introducono alla città; le stradine per le quali è magico camminare e perdersi, passando per la caotica Plaza de Toros, la signorile Plaza de l’Ayuntamiento e la suggestiva Plaza de la Reina, con la sua caratteristica Cattedrale, arrivando fino al Mercado central, piastrelle colorate all’esterno e una moltitudine variegata di banconi all’interno.
Per divertirsi e tornare bambini, il Parco Gulliver è l’ideale; per rilassarsi e perdere un po’ di tempo, El Cort
Engles il massimo.
E la vita notturna, ancora: fatta di locali e localini, discoteche affollatissime e baristi incapaci di fare cocktail, cento montaditos e uno straordinario spettacolo di flamenco. Indimenticabile.
La pioggia che ci ha accompagnato per quasi tutto il viaggio – come sempre fortunati, non c'è che dire  – non ci ha spinto verso il mare: vabè, sarà per la prossima volta. Forse luglio?
Intanto, ricorderò per sempre l’ospitalità della cara studentessa erasmus che ci ha dato vitto e alloggio, le passeggiate per la città in buona compagnia, la signora ottantenne capo ultrà del Valencia ricoperta di spillette e le macchine parcheggiate in doppia fila senza freno a mano: se devi uscire e ti hanno bloccato, basta un attimo per spostarla. Questa sì che è civiltà.
E questa è Valencia, insomma.

Quattro passi per Valencia

Per chi non lo sapesse, sono stato quattro giorni a Valencia.
Non solo paella, ovviamente.
Innanzitutto l’architettura di Santiago Calatrava e la sua imponente Città delle Arti e della Scienza: anche chi come me storce quasi sempre il naso di fronte alle costruzioni ipermoderne non può che restarne affascinato. Cinque straordinari edifici dalle forme “hi-tech”, come suggeriva qualcuno, che riescono comunque ad integrarsi nel tessuto cittadino senza snaturare il paesaggio di una città così carica di storia.
La sera poi, quando si accendono le luci e tutte le strutture si specchiano nelle superfici d’acqua che circondano questo polo futuristico, lo spettacolo è da mozzare il fiato.
Poi L’America’s Cup strappata – meritatamente – a Napoli, che rappresenta uno dei principali motori del fermento che pervade l’intera città.
E ancora Las Fallas che abbiamo perso per qualche giorno, con enormi costruzioni di polistirolo (mi suggerisce la valenciana) che prendono fuoco in un grandissimo e rapido falò notturno nelle principali piazze. Davvero un peccato non aver partecipato. Poco male, però: l’atmosfera di festa e l’alto tasso etilico non c’è di certo mancato.
Valencia: soprattutto un centro storico, pulsante, vivo, circondato da quello che prima era un fiume, ed oggi è un immenso giardino che sorge sul suo letto asciutto: i giardini del Turìa.
Le due imponenti torri del Serrano, con le porte che introducono alla città; le stradine per le quali è magico camminare e perdersi, passando per la caotica Plaza de Toros, la signorile Plaza de l’Ayuntamiento e la suggestiva Plaza de la Reina, con la sua caratteristica Cattedrale, arrivando fino al Mercado central, piastrelle colorate all’esterno e una moltitudine variegata di banconi all’interno.
Per divertirsi e tornare bambini, il Parco Gulliver è l’ideale; per rilassarsi e perdere un po’ di tempo, El Cort
Engles il massimo.
E la vita notturna, ancora: fatta di locali e localini, discoteche affollatissime e baristi incapaci di fare cocktail, cento montaditos e uno straordinario spettacolo di flamenco. Indimenticabile.
La pioggia che ci ha accompagnato per quasi tutto il viaggio – come sempre fortunati, non c'è che dire  – non ci ha spinto verso il mare: vabè, sarà per la prossima volta. Forse luglio?
Intanto, ricorderò per sempre l’ospitalità della cara studentessa erasmus che ci ha dato vitto e alloggio, le passeggiate per la città in buona compagnia, la signora ottantenne capo ultrà del Valencia ricoperta di spillette e le macchine parcheggiate in doppia fila senza freno a mano: se devi uscire e ti hanno bloccato, basta un attimo per spostarla. Questa sì che è civiltà.
E questa è Valencia, insomma.

sabato 24 marzo 2007

Hola

Tra dodici ore sarò a mangiare paella in terra Valenciana. Con leida lei.
Non vi preoccupate, mi divertirò anche per voi che restate qui sotto la pioggia.
Ci si rivede tra 4 o 5 giorni.

Hola

Tra dodici ore sarò a mangiare paella in terra Valenciana. Con leida lei.
Non vi preoccupate, mi divertirò anche per voi che restate qui sotto la pioggia.
Ci si rivede tra 4 o 5 giorni.

Pioggia di marzo

Bellissima.


(Youtube)

Pioggia di marzo

Bellissima.


(Youtube)

True Love Revolution

All'università di Harvard due tizi hanno fondato un movimento per la promozione dell'astinenza dal sesso.
Viste le foto, credo anche senza grandissimi sforzi.

(la Repubblica)

True Love Revolution

All'università di Harvard due tizi hanno fondato un movimento per la promozione dell'astinenza dal sesso.
Viste le foto, credo anche senza grandissimi sforzi.

(la Repubblica)

giovedì 22 marzo 2007

Come procede la tesi?

Nelle ultime settimane mi sento proprio come Robert, il protagonista de "L'amore non guasta" di Jonathan Coe (solo per la parte della tesi, dell'amore lontano non me ne frega una cippa).

(La Feltrinelli)

Come procede la tesi?

Nelle ultime settimane mi sento proprio come Robert, il protagonista de "L'amore non guasta" di Jonathan Coe (solo per la parte della tesi, dell'amore lontano non me ne frega una cippa).

(La Feltrinelli)

mercoledì 21 marzo 2007

Volevo scriverlo io

Per me questo di Antonio Sofi è il post più interessante del mese.
Soprattutto questa parte qui:
"
Ben venga invece una sana personalizzazione, la prima persona e il tono colloquiale, se questi significano:
1) maggiore trasparenza del punto di vista di chi scrive;
2) maggiore apertura all’ascolto e al dialogo con i lettori, e soprattutto
3) la consapevolezza che dall’altra parte del foglio, dello schermo o del Web c’è un lettore che non è popolo-bue, molto meno ingenuo di quanto si vuole credere. Ben consapevole dei meccanismi dell’informazione, sempre più abituato a comparare notizie e opinioni diverse grazie a mille-media che ci sono in giro, che apprezza quando chi gioca con il suo bisogno di informazione lo fa a carte scoperte. Senza prenderlo in giro, o nascondersi dietro il dito della oggettività dei fatti, o della terza persona.
Più che litigiosità, approssimazione e autoreferenzialità (che un po’ è vero, via), è l’attacco alla prima persona che non mi va giù. Al contrario di quanto scrive Carlini (che è ormai qui diventato puro pretesto), il giornalismo di qualità sarà quello che userà al meglio i toni colloquiali e la prima persona. Che riuscirà ad essere personale: ovvero da persona a persona".

(Webgol)

Volevo scriverlo io

Per me questo di Antonio Sofi è il post più interessante del mese.
Soprattutto questa parte qui:
"
Ben venga invece una sana personalizzazione, la prima persona e il tono colloquiale, se questi significano:
1) maggiore trasparenza del punto di vista di chi scrive;
2) maggiore apertura all’ascolto e al dialogo con i lettori, e soprattutto
3) la consapevolezza che dall’altra parte del foglio, dello schermo o del Web c’è un lettore che non è popolo-bue, molto meno ingenuo di quanto si vuole credere. Ben consapevole dei meccanismi dell’informazione, sempre più abituato a comparare notizie e opinioni diverse grazie a mille-media che ci sono in giro, che apprezza quando chi gioca con il suo bisogno di informazione lo fa a carte scoperte. Senza prenderlo in giro, o nascondersi dietro il dito della oggettività dei fatti, o della terza persona.
Più che litigiosità, approssimazione e autoreferenzialità (che un po’ è vero, via), è l’attacco alla prima persona che non mi va giù. Al contrario di quanto scrive Carlini (che è ormai qui diventato puro pretesto), il giornalismo di qualità sarà quello che userà al meglio i toni colloquiali e la prima persona. Che riuscirà ad essere personale: ovvero da persona a persona".

(Webgol)

martedì 20 marzo 2007

Lavori a casa

Li avete mai avuti i lavori a casa? Io mai, prima d'ora.
Fatto sta che da tre settimane a questa parte ho a che fare con sconosciuti che mi stanno rivoluzionando la piantina dell'appartamento, guidati da mio padre che con gli occhi iniettati di sangue dà le direttive per rendere quel tugurio dove vivevamo un posto migliore.
La cosa brutta è che mi ha colto sotanzialmente di sorpresa. Così, da un giorno all'altro, si rifà casa. Oppure ero io ad essere poco attento a tavola negli ultimi tempi. Insomma, non se sapevo nulla. E una bella mattina sono arrivati a casa questi tizi a sfasciare tutto. Uno è pure un parente alla larga, se ho capito bene, e ogni mattina mi dà il buongiorno dicendo: "Giornalì, oggi lo scriviamo un bell'articolo sul fatto che stiamo rifacendo casa?". Mah.
In realtà ho capito ben poco. So solo che questo qui di mestiere tira già mura e crea dal nulla soppalchi, e si sta divertendo a farlo a casa, in questo periodo della mia vita per nulla delicato (dovrei scrivere una tesi di laurea, forse).
Oggi mi hanno abbattuto il corridoio, comunque. Stamattina c'era e stasera non c'è più. In compenso ho una mezza nicchia nel muro che mi hanno detto servirà da libreria, ci sono quintali di polvere ovunque, scatoloni ripieni di cianfrusaglie in ogni angolo della casa, il trapano è attivo 24 ore su 24 ed io sono ad un passo da un esaurimento nervoso coi controfiocchi.
Grazie mille, pà.

Lavori a casa

Li avete mai avuti i lavori a casa? Io mai, prima d'ora.
Fatto sta che da tre settimane a questa parte ho a che fare con sconosciuti che mi stanno rivoluzionando la piantina dell'appartamento, guidati da mio padre che con gli occhi iniettati di sangue dà le direttive per rendere quel tugurio dove vivevamo un posto migliore.
La cosa brutta è che mi ha colto sotanzialmente di sorpresa. Così, da un giorno all'altro, si rifà casa. Oppure ero io ad essere poco attento a tavola negli ultimi tempi. Insomma, non se sapevo nulla. E una bella mattina sono arrivati a casa questi tizi a sfasciare tutto. Uno è pure un parente alla larga, se ho capito bene, e ogni mattina mi dà il buongiorno dicendo: "Giornalì, oggi lo scriviamo un bell'articolo sul fatto che stiamo rifacendo casa?". Mah.
In realtà ho capito ben poco. So solo che questo qui di mestiere tira già mura e crea dal nulla soppalchi, e si sta divertendo a farlo a casa, in questo periodo della mia vita per nulla delicato (dovrei scrivere una tesi di laurea, forse).
Oggi mi hanno abbattuto il corridoio, comunque. Stamattina c'era e stasera non c'è più. In compenso ho una mezza nicchia nel muro che mi hanno detto servirà da libreria, ci sono quintali di polvere ovunque, scatoloni ripieni di cianfrusaglie in ogni angolo della casa, il trapano è attivo 24 ore su 24 ed io sono ad un passo da un esaurimento nervoso coi controfiocchi.
Grazie mille, pà.

Non solo una foto al giorno

Beh, non è che ne capisca poi tanto di fotografia. E poi qualche tempo fa lo prendevo pure un po' in giro.
Ma alla fine ho cambiato idea: Noah Kalina è un fotografo straordinario.

(Noah Kalina)

Non solo una foto al giorno

Beh, non è che ne capisca poi tanto di fotografia. E poi qualche tempo fa lo prendevo pure un po' in giro.
Ma alla fine ho cambiato idea: Noah Kalina è un fotografo straordinario.

(Noah Kalina)

Colombo lascia, io ci rifletto

Che Colombo abbia lasciato la magistratura, è ormai notizia vecchia di qualche giorno. Ma tornare sull'intervista rilasciata dall'ex pm al Corriere della Sera mi pare necessario, per vari motivi.
Innanzitutto, per la caratura del personaggio: uno dei più validi magistrati italiani, che ha partecipato nel corso degli ultimi trent'anni ad inchieste quali la scoperta della Loggia P2, Mani Pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme.
Poi, perché Gherardo Colombo lascia con amarezza, in punta di piedi, ma dicendo cose che lasciano riflettere molto sulla situazione del nostro paese: una su tutte, "La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare".
Infine, perché nel rammarico con cui Colombo lascia, c'è comunque una speranza, un'ipotesi di cambiamente, ed è rivolta ai giovani.
Partire da lì, perché cambiare dall'interno è un'utopia,
e far sì che il senso di giustizia sia avvertito e inculcato sin da ragazzi: "Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia". "Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole". "In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E' una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice".
Speriamo che, oltre ai giovani, sulla giustizia e sulla cultura della giustizia inizino a rifletterci tutti: dal magistrato allo spazzino, dal politico all'uomo comune.
Son piccole cose, ma significative, mi pare.



(Corriere)

Colombo lascia, io ci rifletto

Che Colombo abbia lasciato la magistratura, è ormai notizia vecchia di qualche giorno. Ma tornare sull'intervista rilasciata dall'ex pm al Corriere della Sera mi pare necessario, per vari motivi.
Innanzitutto, per la caratura del personaggio: uno dei più validi magistrati italiani, che ha partecipato nel corso degli ultimi trent'anni ad inchieste quali la scoperta della Loggia P2, Mani Pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme.
Poi, perché Gherardo Colombo lascia con amarezza, in punta di piedi, ma dicendo cose che lasciano riflettere molto sulla situazione del nostro paese: una su tutte, "La giustizia non può funzionare senza che esista prima una condivisione del fatto che debba funzionare".
Infine, perché nel rammarico con cui Colombo lascia, c'è comunque una speranza, un'ipotesi di cambiamente, ed è rivolta ai giovani.
Partire da lì, perché cambiare dall'interno è un'utopia,
e far sì che il senso di giustizia sia avvertito e inculcato sin da ragazzi: "Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia". "Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole". "In Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta, la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su due categorie: furbizia e privilegio. A questo punto del mio percorso di vita, quello che voglio fare è invitare in particolare i giovani a riflettere sul senso della giustizia. E' una scelta del tutto personale, oggi mi sento più adatto a questo impegno che a quello di giudice".
Speriamo che, oltre ai giovani, sulla giustizia e sulla cultura della giustizia inizino a rifletterci tutti: dal magistrato allo spazzino, dal politico all'uomo comune.
Son piccole cose, ma significative, mi pare.



(Corriere)

Non un bel compleanno

Oggi la guerra in Iraq festeggia: 4 anni.

(Euronews)

Non un bel compleanno

Oggi la guerra in Iraq festeggia: 4 anni.

(Euronews)

domenica 18 marzo 2007

Ed io che scrivo a fare?

A me non dà fastidio il fatto che la gente qui sopra ci arrivi cercando "scorregge", perché in passato ne ho parlato in merito ad un simpatico spot di suonerie per cellulari.
Piuttosto mi secca che ci arrivino cercando "le scorregge di mamma" (e la mamma non si tocca), e che dopo questo post nel quale ripeto le due chiavi di ricerca, ne arriveranno ancora di più, nonostante di tanto in tanto qui sopra io ci scriva (credo) anche cose più interessanti.
Volevo solo condividere questo momento di sconforto con qualcuno, magari tra mezz'ora questo post lo cancello.

Ed io che scrivo a fare?

A me non dà fastidio il fatto che la gente qui sopra ci arrivi cercando "scorregge", perché in passato ne ho parlato in merito ad un simpatico spot di suonerie per cellulari.
Piuttosto mi secca che ci arrivino cercando "le scorregge di mamma" (e la mamma non si tocca), e che dopo questo post nel quale ripeto le due chiavi di ricerca, ne arriveranno ancora di più, nonostante di tanto in tanto qui sopra io ci scriva (credo) anche cose più interessanti.
Volevo solo condividere questo momento di sconforto con qualcuno, magari tra mezz'ora questo post lo cancello.

venerdì 16 marzo 2007

Io e Marc Chagall



Marc Chagall. La sua pittura, così sospesa tra fiaba e magia, è un’esperienza visiva unica.
La sua è un’arte pura, che non fa parte della realtà, che si apre al sogno e cerca di riversarlo sulla tela.
Il suo occhio sulla realtà è innocente e poetico, sempre teso a cogliere la bellezza del mondo. Del suo mondo, popolato da personaggi fantastici, figure volanti, animali, sempre realizzati secondo un’ottica onirica e fantastica
Il dipinto ThePromenade è in assoluto l’opera più bella dell’artista russo. Almeno per me, che non capisco un’acca di arte e uso l’aggettivo bello per descrivere un dipinto. Qualcuno mi ucciderebbe, per questo. Ma fatto sta che è proprio bello, non saprei come definirlo.
E’ un’opera straripante, un turbinio di sensazioni, un concentrato di emozioni che sfuggono a catalogazioni precise.
Siamo nell’atmosfera di un sogno, come sempre. I due protagonisti, un uomo e una donna, occupano il centro della scena, un angolo di campagna dov’è stato appena consumato un picnic. Il particolare è che soltanto l’uomo ha ancora i piedi sul prato, la donna ha preso il volo. Forse non sta volando via, forse è l’uomo che la sta lanciando in aria per poi riprenderla, non so. Ma la prima interpretazione mi sembra quella più affascinante.
L’uomo ha i piedi ben saldi per terra. Pensa troppo, riflette anche quando non dovrebbe. E’ vestito di nero, sorride ma forse dentro è un po’ triste perché non riesce ad abbandonarsi completamente all’amore, chissà perché.
Lei, invece, è irrazionale, colorata, pronta a spiccare il volo senza pensarci due volte. E’ istintiva. Dà allegria. Sorride di meno, ma la terra le sta stretta e forse il cielo le darà nuova linfa vitale.
I due opposti sembrerebbero prendere due strade diverse, ma qualcosa non li fa staccare l’uno dall’altro. Quella stretta di mano, che è il centro, il fulcro di tutto il quadro. E’ da lì che parte tutto, è quella salda presa che unisce i due, così diversi tra loro e forse non ancora pronti a vivere sullo stesso piano della vita. Capita così, alle volte.
Chissà se sarà lui a tirarla giù verso terra, o lei a trascinarlo verso il cielo, dove si pensa di meno e ci si abbandona con maggiore serenità ai propri sentimenti. Me lo sono sempre chiesto, non mi sono ancora risposto.
Oppure i due si separeranno, all'improvviso, nonostante si tengano per mano e la stretta appaia ben salda.
Il problema è che non è possibile restare così in eterno, e due mani sono sì forti, ma troppo poco per tenere unite due persone.
Soprattutto se una desidera ardentemente quel cielo, ma l’altra ha bisogno ancora di tempo prima di gettare via la zavorra, e volare.

Io e Marc Chagall



Marc Chagall. La sua pittura, così sospesa tra fiaba e magia, è un’esperienza visiva unica.
La sua è un’arte pura, che non fa parte della realtà, che si apre al sogno e cerca di riversarlo sulla tela.
Il suo occhio sulla realtà è innocente e poetico, sempre teso a cogliere la bellezza del mondo. Del suo mondo, popolato da personaggi fantastici, figure volanti, animali, sempre realizzati secondo un’ottica onirica e fantastica
Il dipinto ThePromenade è in assoluto l’opera più bella dell’artista russo. Almeno per me, che non capisco un’acca di arte e uso l’aggettivo bello per descrivere un dipinto. Qualcuno mi ucciderebbe, per questo. Ma fatto sta che è proprio bello, non saprei come definirlo.
E’ un’opera straripante, un turbinio di sensazioni, un concentrato di emozioni che sfuggono a catalogazioni precise.
Siamo nell’atmosfera di un sogno, come sempre. I due protagonisti, un uomo e una donna, occupano il centro della scena, un angolo di campagna dov’è stato appena consumato un picnic. Il particolare è che soltanto l’uomo ha ancora i piedi sul prato, la donna ha preso il volo. Forse non sta volando via, forse è l’uomo che la sta lanciando in aria per poi riprenderla, non so. Ma la prima interpretazione mi sembra quella più affascinante.
L’uomo ha i piedi ben saldi per terra. Pensa troppo, riflette anche quando non dovrebbe. E’ vestito di nero, sorride ma forse dentro è un po’ triste perché non riesce ad abbandonarsi completamente all’amore, chissà perché.
Lei, invece, è irrazionale, colorata, pronta a spiccare il volo senza pensarci due volte. E’ istintiva. Dà allegria. Sorride di meno, ma la terra le sta stretta e forse il cielo le darà nuova linfa vitale.
I due opposti sembrerebbero prendere due strade diverse, ma qualcosa non li fa staccare l’uno dall’altro. Quella stretta di mano, che è il centro, il fulcro di tutto il quadro. E’ da lì che parte tutto, è quella salda presa che unisce i due, così diversi tra loro e forse non ancora pronti a vivere sullo stesso piano della vita. Capita così, alle volte.
Chissà se sarà lui a tirarla giù verso terra, o lei a trascinarlo verso il cielo, dove si pensa di meno e ci si abbandona con maggiore serenità ai propri sentimenti. Me lo sono sempre chiesto, non mi sono ancora risposto.
Oppure i due si separeranno, all'improvviso, nonostante si tengano per mano e la stretta appaia ben salda.
Il problema è che non è possibile restare così in eterno, e due mani sono sì forti, ma troppo poco per tenere unite due persone.
Soprattutto se una desidera ardentemente quel cielo, ma l’altra ha bisogno ancora di tempo prima di gettare via la zavorra, e volare.

mercoledì 14 marzo 2007

Chi l'ha visto (il blogger)

Daveblog è scomparso dalla blogosfera ormai da quasi 10 giorni. Nei commenti, il panico diffuso.
Iniziamo a preoccuparci?

Update: No, non è il caso. Sta bene e ha solo problemi di connessione.

(Selvaggia Lucarelli)

Chi l'ha visto (il blogger)

Daveblog è scomparso dalla blogosfera ormai da quasi 10 giorni. Nei commenti, il panico diffuso.
Iniziamo a preoccuparci?

Update: No, non è il caso. Sta bene e ha solo problemi di connessione.

(Selvaggia Lucarelli)

Home Sweet Home?



(Corriere)

Home Sweet Home?



(Corriere)

lunedì 12 marzo 2007

Per te, D.D.



Avevo dodici anni. Seconda media, se non sbaglio. Tirai avanti con la gelatina i capelli un po’ lunghetti, calzai il solito jeans, ai piedi un paio di polacchine. Il giorno prima avevo pregato mia mamma di comprarmi una camicia rossa, con le maniche lunghe. La giacca già l’avevo, era quella della prima comunione.

Avevo dodici anni. E non era ancora Carnevale. Ma non per questo decisi di cambiarmi. A scuola ci andai vestito proprio così: come Dylan Dog.
Ora, non so perché mia madre, in quell’occasione non decise di bloccarmi. Subito, sulla soglia di casa. Dodici anni, piccolo rispetto al resto della classe, vestito come il protagonista di un fumetto che probabilmente allora leggevo solo io, tra i miei coetanei. E che era vestito, parliamoci chiaro, come uno sfigato con pessimo gusto. Ero una preda fin troppo facile. Infatti, sulla giornata in aula meglio stendere un velo pietoso.
Poco importa, però. Tornai a casa, ma prima passai in edicola: il nuovo numero di D.D. era lì ad aspettarmi. Me ne fregai degli stupidi sfottò degli amici, tirai dritto verso casa a testa alta. Mi dimenticai di tutto il resto, fremevo soltanto per la lettura di una nuova storia.
Dylan Dog, Indagatore dell’incubo. Imbronciato e coraggioso, timido ma irresistibile, è stato la mia adolescenza. Volevo essere come lui, volevo vivere come lui. Dio, come si può essere sciocchi da bambini. Ma appunto, si è bambini. Quindi tutto – o quasi – è concesso. Anche immedesimarsi così tanto in un personaggio in bianco e nero sulle pagine un fumetto mensile.
Dylan Dog per me era tutto: modello di vita e motivo di crescita personale. Stimolo culturale e guida di comportamento. Dylan Dog ha accompagnato me e la mia generazione attraverso storie d’amore e d’orrore, ma non solo. Era, oggettivamente, un capolavoro: Sclavi – suo creatore nell’86 - era riuscito a fondere letteratura e cinema, sentimenti e romanticismo, in un’opera – sì, un’opera – che in Italia non ha avuto più epigoni all’altezza.
Dylan Dog ha saputo raccontare l’amore impossibile e il dramma della malattia (“Memorie dall’invisibile”), l’emarginazione e la vigliaccheria dell’essere umano (“Johnny Freak”), il destino beffardo (“Accadde Domani”), l’orrore dell’inquisizione e della censura (“Caccia alle streghe”), il ricordo degli amori ormai lontani (“Il lungo addio”). Solo per citarne alcuni.
Dylan Dog non è solo mostri e zombies. Chi ha sfogliato distrattamente un albo arrivando a questa conclusione, ha capito ben poco dello spirito del fumetto.
Dylan Dog è l’antieroe per eccellenza: un uomo normale, con le sue paure e le sue debolezze, che vive alla ricerca dell’amore e nel frattempo combatte tutte le forme di abuso e prevaricazione nella nostra società.
Dylan Dog ha insegnato a noi lettori che un mondo migliore può esistere, nonostante tutto. Basta combattere per ottenerlo, e se non si ottiene la prima volta c’è sempre tempo per riprovarci.
Ci ha spiegato che al mondo i veri mostri sono quelli in carne ed ossa, quelli che appartengono al genere umano. Spesso sono molto più forti di noi, spesso vincono e si allontanano lasciandoci tramortiti al tappeto. Ma Dylan Dog ci ha anche fatto capire come rialzarci e cominciare daccapo,  senza lasciare che i nostri sogni siano cancellati dal marcio che ci gira attorno.
Dylan Dog per me è stato – ed è ancora, con le dovute proporzioni – tutto questo. Se non l’avessi letto, probabilmente oggi sarei diverso. Forse sarebbe stato meglio – mi chiedo alle volte – forse sarei una persona più serena ed equilibrata. Di sicuro, meno problematica.
Ma poi mi guardo allo specchio, e capisco che va bene così. Mi alzo il bavero della giacca che non ho – come Dylan, sotto la pioggia – e continuo dritto per la mia strada.

Per te, D.D.



Avevo dodici anni. Seconda media, se non sbaglio. Tirai avanti con la gelatina i capelli un po’ lunghetti, calzai il solito jeans, ai piedi un paio di polacchine. Il giorno prima avevo pregato mia mamma di comprarmi una camicia rossa, con le maniche lunghe. La giacca già l’avevo, era quella della prima comunione.

Avevo dodici anni. E non era ancora Carnevale. Ma non per questo decisi di cambiarmi. A scuola ci andai vestito proprio così: come Dylan Dog.
Ora, non so perché mia madre, in quell’occasione non decise di bloccarmi. Subito, sulla soglia di casa. Dodici anni, piccolo rispetto al resto della classe, vestito come il protagonista di un fumetto che probabilmente allora leggevo solo io, tra i miei coetanei. E che era vestito, parliamoci chiaro, come uno sfigato con pessimo gusto. Ero una preda fin troppo facile. Infatti, sulla giornata in aula meglio stendere un velo pietoso.
Poco importa, però. Tornai a casa, ma prima passai in edicola: il nuovo numero di D.D. era lì ad aspettarmi. Me ne fregai degli stupidi sfottò degli amici, tirai dritto verso casa a testa alta. Mi dimenticai di tutto il resto, fremevo soltanto per la lettura di una nuova storia.
Dylan Dog, Indagatore dell’incubo. Imbronciato e coraggioso, timido ma irresistibile, è stato la mia adolescenza. Volevo essere come lui, volevo vivere come lui. Dio, come si può essere sciocchi da bambini. Ma appunto, si è bambini. Quindi tutto – o quasi – è concesso. Anche immedesimarsi così tanto in un personaggio in bianco e nero sulle pagine un fumetto mensile.
Dylan Dog per me era tutto: modello di vita e motivo di crescita personale. Stimolo culturale e guida di comportamento. Dylan Dog ha accompagnato me e la mia generazione attraverso storie d’amore e d’orrore, ma non solo. Era, oggettivamente, un capolavoro: Sclavi – suo creatore nell’86 - era riuscito a fondere letteratura e cinema, sentimenti e romanticismo, in un’opera – sì, un’opera – che in Italia non ha avuto più epigoni all’altezza.
Dylan Dog ha saputo raccontare l’amore impossibile e il dramma della malattia (“Memorie dall’invisibile”), l’emarginazione e la vigliaccheria dell’essere umano (“Johnny Freak”), il destino beffardo (“Accadde Domani”), l’orrore dell’inquisizione e della censura (“Caccia alle streghe”), il ricordo degli amori ormai lontani (“Il lungo addio”). Solo per citarne alcuni.
Dylan Dog non è solo mostri e zombies. Chi ha sfogliato distrattamente un albo arrivando a questa conclusione, ha capito ben poco dello spirito del fumetto.
Dylan Dog è l’antieroe per eccellenza: un uomo normale, con le sue paure e le sue debolezze, che vive alla ricerca dell’amore e nel frattempo combatte tutte le forme di abuso e prevaricazione nella nostra società.
Dylan Dog ha insegnato a noi lettori che un mondo migliore può esistere, nonostante tutto. Basta combattere per ottenerlo, e se non si ottiene la prima volta c’è sempre tempo per riprovarci.
Ci ha spiegato che al mondo i veri mostri sono quelli in carne ed ossa, quelli che appartengono al genere umano. Spesso sono molto più forti di noi, spesso vincono e si allontanano lasciandoci tramortiti al tappeto. Ma Dylan Dog ci ha anche fatto capire come rialzarci e cominciare daccapo,  senza lasciare che i nostri sogni siano cancellati dal marcio che ci gira attorno.
Dylan Dog per me è stato – ed è ancora, con le dovute proporzioni – tutto questo. Se non l’avessi letto, probabilmente oggi sarei diverso. Forse sarebbe stato meglio – mi chiedo alle volte – forse sarei una persona più serena ed equilibrata. Di sicuro, meno problematica.
Ma poi mi guardo allo specchio, e capisco che va bene così. Mi alzo il bavero della giacca che non ho – come Dylan, sotto la pioggia – e continuo dritto per la mia strada.

sabato 10 marzo 2007

Il massacro dei delfini

Dopo un paio di post altamente autorefereziali, attiracommenti e un po' amareggiati, meglio tornare alle cose serie.
Come al fatto che vado su Youtube - come sempre - esploro un po' la home alla ricerca di qualcosa di interessante e poi via con la ricerca per tags. Oggi ho scritto la tesi, qualche pagina dedicata al rapimento di Enzo Baldoni, ormai sono partito, e forse pure col piede giusto.
Per non so quale strano gioco di associazioni mentali, penso ad Enzo, poi subito all'agenzia di pubblicità da lui fondata, "Le balene". 
Mi metto a cercar balene, mi guardo un paio di video. Poi cambio cetaceo: delfini, perché mi sono sempre stati troppo simpatici. Per una ricerca più ampia, gioco con l'inglese: dolphins.
Ecco che appaiono più di settemila video che corrispondono alla parola cercata. Faccio un giro tra le pagine, ma alla seconda mi blocco. Subito.
Fisso il quadratino del video cercando di capire. Poi capisco, e sto male.
STOP KILLING DOLPHINS !!!
Ecco, posso solo immaginare quello che ci sarà in quel video.
Posso, perché avevo già letto la notizia del massacro dei delfini in Giappone qualche tempo fa. Ma vederlo, dico, non è certo come leggerlo.

Prendo coraggio, ci clicco su: "This video may contain content that is inappropriate for some users, as flagged by YouTube's user community".
Clicco Confirm, perché DEVO vedere quest'atto di barbarie.
Ma ora che l'ho fatto, difficilmente riuscirò a togliermelo dalla mente.
Fermiamo questo massacro, sottoscrivete qui la petizione. Io l'ho già fatto.

(Youtub, Petitiononline)

Il massacro dei delfini

Dopo un paio di post altamente autorefereziali, attiracommenti e un po' amareggiati, meglio tornare alle cose serie.
Come al fatto che vado su Youtube - come sempre - esploro un po' la home alla ricerca di qualcosa di interessante e poi via con la ricerca per tags. Oggi ho scritto la tesi, qualche pagina dedicata al rapimento di Enzo Baldoni, ormai sono partito, e forse pure col piede giusto.
Per non so quale strano gioco di associazioni mentali, penso ad Enzo, poi subito all'agenzia di pubblicità da lui fondata, "Le balene". 
Mi metto a cercar balene, mi guardo un paio di video. Poi cambio cetaceo: delfini, perché mi sono sempre stati troppo simpatici. Per una ricerca più ampia, gioco con l'inglese: dolphins.
Ecco che appaiono più di settemila video che corrispondono alla parola cercata. Faccio un giro tra le pagine, ma alla seconda mi blocco. Subito.
Fisso il quadratino del video cercando di capire. Poi capisco, e sto male.
STOP KILLING DOLPHINS !!!
Ecco, posso solo immaginare quello che ci sarà in quel video.
Posso, perché avevo già letto la notizia del massacro dei delfini in Giappone qualche tempo fa. Ma vederlo, dico, non è certo come leggerlo.

Prendo coraggio, ci clicco su: "This video may contain content that is inappropriate for some users, as flagged by YouTube's user community".
Clicco Confirm, perché DEVO vedere quest'atto di barbarie.
Ma ora che l'ho fatto, difficilmente riuscirò a togliermelo dalla mente.
Fermiamo questo massacro, sottoscrivete qui la petizione. Io l'ho già fatto.

(Youtub, Petitiononline)

giovedì 8 marzo 2007

Che bella la festa delle donne

Scalmanate. Stasera vi voglio vedere così.
Tirate a lucido, inguainate nei vostri vestitini della domenica, strette nei completi in similpelle comprati sulla bancarella di fiducia, rivestite di magliettine leopardate, tigrate, zebrate, oscene.

Stasera tutte per strada o nei locali, ché è la vostra festa. Alla ricerca del divertimento spicciolo, della pomiciatina selvaggia, dello spogliarellista dei vostri sogni con la mimosa tra i denti e lo slip minuscolo.
Dai, sbizzarritevi pure. In quattro o cinque nella stessa macchina, la più bella alla guida - che non si distrae e attira i maschietti - etutte le altre a urlare sguaiate, sbraitare, fare postegge. Vai, che avita fà o'bburdell.
Alla faccia delle suffragette, del femminismo, delle pari opportunità. Stasera si folleggia.
Baccanti urlanti alla disperata ricerca di testosterone.
Virago impernacchiate disposte al tutto per tutto, dimenticando per una notte cosa sia la dignità.
Oggi è la vostra festa, l'8 marzo, la festa delle donne.
Ma tanto a voi che ve frega, l'importante è portare a casa il tanga acetato del Centocelle Nightmare di turno.

E tanti auguri a tutte.

Che bella la festa delle donne

Scalmanate. Stasera vi voglio vedere così.
Tirate a lucido, inguainate nei vostri vestitini della domenica, strette nei completi in similpelle comprati sulla bancarella di fiducia, rivestite di magliettine leopardate, tigrate, zebrate, oscene.

Stasera tutte per strada o nei locali, ché è la vostra festa. Alla ricerca del divertimento spicciolo, della pomiciatina selvaggia, dello spogliarellista dei vostri sogni con la mimosa tra i denti e lo slip minuscolo.
Dai, sbizzarritevi pure. In quattro o cinque nella stessa macchina, la più bella alla guida - che non si distrae e attira i maschietti - etutte le altre a urlare sguaiate, sbraitare, fare postegge. Vai, che avita fà o'bburdell.
Alla faccia delle suffragette, del femminismo, delle pari opportunità. Stasera si folleggia.
Baccanti urlanti alla disperata ricerca di testosterone.
Virago impernacchiate disposte al tutto per tutto, dimenticando per una notte cosa sia la dignità.
Oggi è la vostra festa, l'8 marzo, la festa delle donne.
Ma tanto a voi che ve frega, l'importante è portare a casa il tanga acetato del Centocelle Nightmare di turno.

E tanti auguri a tutte.

martedì 6 marzo 2007

Dimenticare/Ricordare

E’ che sono un po’ troppo distratto nell’ultimo periodo. Una parte di me già lo sapeva bene, fin troppo bene, che a fare mille cose alla fine non se ne fa nessuna come si deve.
Ma poi te lo fanno anche notare, tu incassi il colpo facendo spallucce, ma dentro ti rode perché in fondo sai che è la verità.
C’è poi il fatto che non dormo. Ancora. E anche quello che mi dimentico le cose, che poi è connesso al fatto che non dormo e che sono troppo distratto (vedi sopra).
Il che non è sempre un male – in certi casi – ma quando ti dimentichi di essere andato a lavoro con l’auto e te ne torni con l’autobus (pure preso di corsa), in effetti, questo inizia a farti riflettere.
Ma poi ti dimentichi che ci stavi riflettendo sopra, quindi torna tutto come prima. Senza problemi ulteriori. O meglio, meglio non pensarci.
Ho dimenticato che prima mi dicevo più spesso che avrei smesso di fumare il giorno dopo. Ora non ci provo proprio più, che non è il caso e sono troppo grande per continuare a prendermi in giro così.
Ho dimenticato di avere una montagna di libri che prendono polvere lì sul comodino. E che ci vorrebbe un’altra vita solo per leggerli, un’altra ancora per metabolizzarli, e una terza per raggrupparli tutti insieme e creare una cosa che sia realmente personale. Unica. Mia.
Poi ho dimenticato come si fa a non aver paure della vita e delle proprie idee, ad affrontarla – la vita – e metterle in pratica – le idee – senza pensarci più di tanto – diretto, sì, perché non lo sei mai? – a lasciare che le cose non mi scivolino sempre addosso, che poi passano, si allontanano, le hai perse e non capisci nemmeno il perché.
Ho dimenticato come si fa a non dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato. E che se non si ha ben chiaro dentro la testolina cosa dire, meglio stare zitti per non combinare casini. Che poi in fondo sei un romantico, e ci stai un po’ male anche se non lo dai a vedere.
Ho dimenticato. Ho dimenticato che non è sempre bello ricordare.
Ma so anche che è da questi due verbi che parte tutto: dimenticare/ricordare. Inutile girarci intorno, inutile restare sveglio fino alle tre passate e fumare ancora davanti a questa tastiera del cazzo.
Dimenticare alcuni ricordi – li decido io, quali – ricordarne altri, quelli belli sul serio, che se scavo bene li trovo ancora. Si contano sulla punta delle dita, mi sfuggono e forse mi ingannano, ma se ci penso rido ancora di gusto. Grazie.
Ricordarmi di dimenticare presto, quando serve. E ricordare che quando il treno è passato e se n’è andato puoi correre quando vuoi, ma mica lo riacchiappi. E parlo di treni recenti, che quelli passati davvero non me li ricordo più.
No, non è Alzheimer, ma solo lo specchio della grande confusione che ho dentro. Ma forse, per stare meglio, me ne dovrei  semplicemente dimenticare.

Dimenticare/Ricordare

E’ che sono un po’ troppo distratto nell’ultimo periodo. Una parte di me già lo sapeva bene, fin troppo bene, che a fare mille cose alla fine non se ne fa nessuna come si deve.
Ma poi te lo fanno anche notare, tu incassi il colpo facendo spallucce, ma dentro ti rode perché in fondo sai che è la verità.
C’è poi il fatto che non dormo. Ancora. E anche quello che mi dimentico le cose, che poi è connesso al fatto che non dormo e che sono troppo distratto (vedi sopra).
Il che non è sempre un male – in certi casi – ma quando ti dimentichi di essere andato a lavoro con l’auto e te ne torni con l’autobus (pure preso di corsa), in effetti, questo inizia a farti riflettere.
Ma poi ti dimentichi che ci stavi riflettendo sopra, quindi torna tutto come prima. Senza problemi ulteriori. O meglio, meglio non pensarci.
Ho dimenticato che prima mi dicevo più spesso che avrei smesso di fumare il giorno dopo. Ora non ci provo proprio più, che non è il caso e sono troppo grande per continuare a prendermi in giro così.
Ho dimenticato di avere una montagna di libri che prendono polvere lì sul comodino. E che ci vorrebbe un’altra vita solo per leggerli, un’altra ancora per metabolizzarli, e una terza per raggrupparli tutti insieme e creare una cosa che sia realmente personale. Unica. Mia.
Poi ho dimenticato come si fa a non aver paure della vita e delle proprie idee, ad affrontarla – la vita – e metterle in pratica – le idee – senza pensarci più di tanto – diretto, sì, perché non lo sei mai? – a lasciare che le cose non mi scivolino sempre addosso, che poi passano, si allontanano, le hai perse e non capisci nemmeno il perché.
Ho dimenticato come si fa a non dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato. E che se non si ha ben chiaro dentro la testolina cosa dire, meglio stare zitti per non combinare casini. Che poi in fondo sei un romantico, e ci stai un po’ male anche se non lo dai a vedere.
Ho dimenticato. Ho dimenticato che non è sempre bello ricordare.
Ma so anche che è da questi due verbi che parte tutto: dimenticare/ricordare. Inutile girarci intorno, inutile restare sveglio fino alle tre passate e fumare ancora davanti a questa tastiera del cazzo.
Dimenticare alcuni ricordi – li decido io, quali – ricordarne altri, quelli belli sul serio, che se scavo bene li trovo ancora. Si contano sulla punta delle dita, mi sfuggono e forse mi ingannano, ma se ci penso rido ancora di gusto. Grazie.
Ricordarmi di dimenticare presto, quando serve. E ricordare che quando il treno è passato e se n’è andato puoi correre quando vuoi, ma mica lo riacchiappi. E parlo di treni recenti, che quelli passati davvero non me li ricordo più.
No, non è Alzheimer, ma solo lo specchio della grande confusione che ho dentro. Ma forse, per stare meglio, me ne dovrei  semplicemente dimenticare.

Le vie infinite dei rifiuti

Conosco ormai Alessandro Iacuelli da un po’, più o meno da quando pubblicò un post sul proprio blog, dal titolo “Come muore la mia terra”, che fece rapidamente il giro del web.
Era un post molto interessante, datato 23 febbraio 2006. Lungo, difficile, scomodo.
Il suo era un racconto amaro e disincantato sull’inquinamento atmosferico, le discariche abusive e l’altissima mortalità per tumori nella provincia di Napoli. Quel post ormai vive di vita propria, i commenti si moltiplicano di giorno in giorno e sempre più gente inorridisce nel leggere la verità raccolta da quella testimonianza.
Ad un anno da quel post Iacuelli, napoletano da molti anni trasferitosi a Roma, laureato in fisica, giornalista freelance e collaboratore di altrenotizie.org, ha pubblicato un libro, nel quale descrive in modo competente e dettagliato il cosiddetto "business dei rifiuti", che riguarda spesso da vicino la città di Napoli.
Il libro in questione è "Le vie infinite dei rifiuti": un'inchiesta giornalistica nella quale Iacuelli ricostruisce il viaggio e lo smaltimento dei materiali tossici verso la Campania e le motivazioni concrete dell'ormai cronica "emergenza rifiuti" della regione. E’ pubblicato dalla casa editrice del sito altrenotizie, ed è disponibile sia in versione cartacea che in e-book.
Non l’ho ancora letto, lo ammetto, ma credo sia un libro interessante, non banale, frutto di un’indagine accurata mossa dalla passione di chi non ha ancora voglia di arrendersi, e combatte perché si faccia sempre maggiore chiarezza sulla questione rifiuti che da tempo tormenta la nostra terra.
Per saperne di più, sull'autore e sul libro, consiglio un giro qui e qui.

Le vie infinite dei rifiuti

Conosco ormai Alessandro Iacuelli da un po’, più o meno da quando pubblicò un post sul proprio blog, dal titolo “Come muore la mia terra”, che fece rapidamente il giro del web.
Era un post molto interessante, datato 23 febbraio 2006. Lungo, difficile, scomodo.
Il suo era un racconto amaro e disincantato sull’inquinamento atmosferico, le discariche abusive e l’altissima mortalità per tumori nella provincia di Napoli. Quel post ormai vive di vita propria, i commenti si moltiplicano di giorno in giorno e sempre più gente inorridisce nel leggere la verità raccolta da quella testimonianza.
Ad un anno da quel post Iacuelli, napoletano da molti anni trasferitosi a Roma, laureato in fisica, giornalista freelance e collaboratore di altrenotizie.org, ha pubblicato un libro, nel quale descrive in modo competente e dettagliato il cosiddetto "business dei rifiuti", che riguarda spesso da vicino la città di Napoli.
Il libro in questione è "Le vie infinite dei rifiuti": un'inchiesta giornalistica nella quale Iacuelli ricostruisce il viaggio e lo smaltimento dei materiali tossici verso la Campania e le motivazioni concrete dell'ormai cronica "emergenza rifiuti" della regione. E’ pubblicato dalla casa editrice del sito altrenotizie, ed è disponibile sia in versione cartacea che in e-book.
Non l’ho ancora letto, lo ammetto, ma credo sia un libro interessante, non banale, frutto di un’indagine accurata mossa dalla passione di chi non ha ancora voglia di arrendersi, e combatte perché si faccia sempre maggiore chiarezza sulla questione rifiuti che da tempo tormenta la nostra terra.
Per saperne di più, sull'autore e sul libro, consiglio un giro qui e qui.

giovedì 1 marzo 2007

Perché Sanremo è Sanremo (purtroppo)

Mi sembra incredibile che a Sanremo 2007, il Festival della canzone italiana, quella più bella e orecchiabile finora ascoltata sia "La Paranza" di Daniele Silvestri, che ricorda tanto - nella melodia e nell'aria di cazzeggio che si respira in tutto il brano - uno dei peggiori motivetti di Renzo Arbore con l'Orchestra italiana.
(No, non ho sentito Paolo Rossi, forse la sua canzone è migliore - dato che il testo è dell'immenso Rino Gaetano - ma comunque il quadro generale di questo Festival, come sempre, è davvero avvilente).

Perché Sanremo è Sanremo (purtroppo)

Mi sembra incredibile che a Sanremo 2007, il Festival della canzone italiana, quella più bella e orecchiabile finora ascoltata sia "La Paranza" di Daniele Silvestri, che ricorda tanto - nella melodia e nell'aria di cazzeggio che si respira in tutto il brano - uno dei peggiori motivetti di Renzo Arbore con l'Orchestra italiana.
(No, non ho sentito Paolo Rossi, forse la sua canzone è migliore - dato che il testo è dell'immenso Rino Gaetano - ma comunque il quadro generale di questo Festival, come sempre, è davvero avvilente).