domenica 22 ottobre 2006

Gangster Story, di Arthur Penn

Partiamo dalla fine: una scena così in un film del 1967 è a dir poco micidiale.
Due minuti prima Bonny e Clyde vivi, sorridenti, i banditi più famosi d'America.
Due minuti dopo, cadaveri crivellati di colpi in un lago di sangue.
Ed il ralenti serve solo a rendere ancora più realistica e drammatica una scena, già di per sè, incredibilmente intensa.
Perché si sapeva, in fondo, che i due prima o poi sarebbero passati a miglior vita.
Le rapine, le foto su i giornali di tutto il paese, le taglie sulla loro testa. Il momento della morte sarebbe arrivato presto. L'avevano intuito anche loro che era troppo tardi, avevano superato il punto di non ritorno, e non avrebbero mai potuto cambiare vita e cancellare il passato.
Lo sapevano.
Come lo sapevo anch'io, e sapevo che stasera avrei visto un grande film.
"Gangster Story", di Arthur Penn. Un film eccezionale.
Grande tensione narrativa, le interpretazioni eccellenti di Warren Beatty e Gene Hackman, il cameo di Gene Wilder, le auto d'epoca per le quali impazzisco (pur non capendoci nulla), le rapine in banca e gli inseguimenti mozzafiato tra paesini texani e strade di campagna desolate. E poi, lei: una Faye Dunaway così bella da sembrare quasi irreale.
Il film risente molto dell'influenza della Nouvelle Vague francese, dei cambiamenti politici e sociali oltreoceano, e diventa caposcuola di tutto quel cinema americano a cavallo tra gli anni Sessante e Settanta, attraverso il quale una nuova generazione di registi (Penn, Hopper, Peckinpah) ha intenzione di applicare la propria mano ed il proprio stile in ogni inquadratura.
Un cinema ribelle, fuori dai canoni del tempo, innovativo.
Un cinema che sa appassionare e coinvolgere emotivamente lo spettatore.
E, anche a distanza di quasi quarant'anni, risulta ancora incredibilmente attuale.

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