Pubblicare o non pubblicare. Fino a che punto è notizia, e quando si sfocia nella macabra e inutile ricerca dello scoop a tutti i costi?
Quando si tratta di immagini dure e drammatiche come quella del soldato americano morente dilaniato da una bomba in Afghanistan, il dibattito sull'etica giornalistica torna sempre prepotentemente alla ribalta.
Tra i primi ci fu Robert Capa, che addirittura con il suo "miliziano morente" riuscì ad immortalare proprio l'istante in cui la pallottola uccide il soldato (anche se negli ultimi tempi sono stati sollevati molti dubbi sull'autenticità della foto).
Nella foto di Julie Jacobson - che trovate scavando un po' tra il link del web - è immortalata la morte che sta per sopraggiungere, la violenza della guerra. Così lontana, così vicina.
Quello che i comuni cittadini non vedono mai, ma che sanno, perché non gli viene mostrato, ma che possono di sicuro immaginare.
Quello che i film ci fanno vedere sempre, ma lì il sangue è finto, così come i morti ammazzati. Qui invece il morto è vero, e la foto ce lo testimonia in tutta la sua urgenza. Una foto scattata di fretta, neanche troppo nitida. Capita pochissime volte che qualcuno ci ricordi di quanti morti ci sono in guerra, dovunque, da una parte e dall'altra, soprattutto da quando molte guerre sono dimenticate, avvolte nei coni d'ombra dell'informazione. E, anche quando si tratta di guerre più note, che interessano l'occidente, i giornalisti sono sempre embedded, incorporati nelle truppe e quindi scrivono e vedono solo una parte della guerra.
Invece qui c'è un uomo morto, insieme ai soldati ancora vivi. A casa c'è la sua famiglia, che ora lo piange e che si indigna - giustamente - per la pubblicazione della foto. Hanno di certo le loro ragioni. Il rispetto per la famiglia e per il morto è sicuramente da tener conto, ma purtroppo questo è quello che accade in guerra, non deve essere taciuto. In guerra si muore: e i giornali, i giornalisti e i fotografi esistono per raccontarlo, testimoniarlo e immortalarlo su pellicola, per sempre.
(Corriere, Blitz)
Quando si tratta di immagini dure e drammatiche come quella del soldato americano morente dilaniato da una bomba in Afghanistan, il dibattito sull'etica giornalistica torna sempre prepotentemente alla ribalta.
Tra i primi ci fu Robert Capa, che addirittura con il suo "miliziano morente" riuscì ad immortalare proprio l'istante in cui la pallottola uccide il soldato (anche se negli ultimi tempi sono stati sollevati molti dubbi sull'autenticità della foto).
Nella foto di Julie Jacobson - che trovate scavando un po' tra il link del web - è immortalata la morte che sta per sopraggiungere, la violenza della guerra. Così lontana, così vicina.
Quello che i comuni cittadini non vedono mai, ma che sanno, perché non gli viene mostrato, ma che possono di sicuro immaginare.
Quello che i film ci fanno vedere sempre, ma lì il sangue è finto, così come i morti ammazzati. Qui invece il morto è vero, e la foto ce lo testimonia in tutta la sua urgenza. Una foto scattata di fretta, neanche troppo nitida. Capita pochissime volte che qualcuno ci ricordi di quanti morti ci sono in guerra, dovunque, da una parte e dall'altra, soprattutto da quando molte guerre sono dimenticate, avvolte nei coni d'ombra dell'informazione. E, anche quando si tratta di guerre più note, che interessano l'occidente, i giornalisti sono sempre embedded, incorporati nelle truppe e quindi scrivono e vedono solo una parte della guerra.
Invece qui c'è un uomo morto, insieme ai soldati ancora vivi. A casa c'è la sua famiglia, che ora lo piange e che si indigna - giustamente - per la pubblicazione della foto. Hanno di certo le loro ragioni. Il rispetto per la famiglia e per il morto è sicuramente da tener conto, ma purtroppo questo è quello che accade in guerra, non deve essere taciuto. In guerra si muore: e i giornali, i giornalisti e i fotografi esistono per raccontarlo, testimoniarlo e immortalarlo su pellicola, per sempre.
(Corriere, Blitz)
Sono d'accordo che nella stragrande maggioranza dei casi, la visione diretta e brutale della morte non è necessaria.
RispondiEliminaLa verità è che la gente è spesso cinica e cerca il dolore altrui per morbosità.
Da qui l'adorazione per certi filmacci che vengono catalogati come "bellici".
Non c'è alcuna differenza tra la curiosità per la morte di oggi e le arene romane di 2.000 anni fa.
La morte, la violenza, l'odio in TV/cinema, è sempre uno spettacolo ignobile cammuffato da "rappresentazione storica"
Ma per favore...
Stefano