lunedì 15 ottobre 2007

In Rainbows: la recensione

Accantoniamo per un po’ – facciamo per sempre, và – Veltroni e le primarie, per parlare dell’ultimo lavoro dei Radiohead. Ascoltato e riascoltato, negli ultimi 5 giorni.
Mi ero promesso di fare una cosa, appena avessi parlato del disco: non scrivere neanche una volta le parole “rivoluzione discografica”, “innovazione”, “alternativi”, o “fine delle case discografiche”.
Sì, perché va bene la novità, ma se stiamo parlando di musica, è soprattutto quella che bisogna valutare. E com’è? Di alto livello, diciamolo subito.
Poi, diciamo anche che questo è il settimo disco della band. E i Radiohead nei sei precedenti avevano fatto tutto: canzoni splendide, canzoni rock, canzoni-non canzoni, canzoni politiche, canzoni melodiche e finanche pop.
Cosa potevano fare, ora, di più? Poco altro. Infatti, questo In rainbows non innova né rivoluziona, dal punto musicale, ma è come una lunga traccia musicale quasi perfetta.
L’uniformità è la prima cosa che colpisce, in questo disco. A parte le prime due canzoni (15 StepBodysnatchers, più rock), tutto l’album si caratterizza per i suoni morbidi e le melodie delicate.
Chitarre e batteria piuttosto lineari, ogni tanto qualche suono elettronico appena accennato. Quello che sorprende, è soprattutto l'uso abbondante di cori, coretti e archi.

Verso la fine, volendo entrare nel particolare, i brani più belli: House of cards, Jigsaw falling into place e Videotape. Tenendo da parte la rivoluzione, prima di tutto splendide canzoni.
Come un Ok Computer meno eclettico, o un Amnesiac meno delirante, questo In Rainbows ci dà l’idea di una band che ha fatto di tutto nella propria carriera, ha fatto parlare fin troppo di sé in passato ed ora - al di là della trovata del download - può tranquillamente lasciare da parte la sperimentazione e permettersi di stare rilassata a fare buona musica, tra gli arcobaleni.

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