sabato 5 febbraio 2005


ELOGIO DELL'OMBRA




La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)


può essere per noi il tempo più felice.


È morto l’animale o quasi è morto.


Restano l’uomo e l’anima.


Vivo tra forme luminose e vaghe


che ancora non sono tenebra.


Buenos Aires,


che un tempo si lacerava in sobborghi


verso la pianura incessante,


è di nuova la Recoleta, il Retiro,


le confuse strade dell’Once


e le precarie case vecchie


che seguitiamo a chiamare il Sud.


Nella mia vita son sempre state troppe le cose;


Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare;


il tempo è stato il mio Democrito.


Questa penombra è lenta e non fa male;


scorre per un mite pendio


e somiglia all'eterno.


Gli amici miei non hanno volto,


le donne son quello che furono in anni lontani,


i cantoni sono gli stessi ed altri,


non hanno lettere i fogli dei libri.


Dovrebbe impaurirmi tutto questo


e invece è una dolcezza, un ritornare.


Delle generazioni di testi che ha la terra


non ne avrò letti che alcuni,


quelli che leggo ancora nel ricordo,


che rileggo e trasformo.


Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest


convergono le vie che mi han condotto


al mio centro segreto.


Vie che furono già echi e passi,


donne, uomini, agonie e risorgere,


giorni con notti,


sogni e immagini del dormiveglia,


ogni minimo istante dello ieri


e degli ieri del mondo,


la salda spada del danese e la luna del persiano,


gli atti dei morti,


l’amore condiviso, le parole,


ed Emerson, la neve, e quanto ancora.
Posso infine scordare. Giungo al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.



J. L. Borges


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