Ieri notte ho colmato una mia grande lacuna cinematografica, vedendo "La venticinquesima ora" di Spike Lee.
Cinema black, cinema esaltante e arrabbiato, cinema di nuovo millennio.
Grande cinema, soprattutto.
Tutto è nato dal post dell'amico Simone che parlava del film e linkava "il monologo più ficcante del cinema contemporaneo".
Incuriosito, ho dato un occhio alla videoteca e ho visto il dvd comprato tempo fa, che stava accumulando polvere inutilmente da troppe settimane. Forse mesi.
Con New york come sfondo, il buon Eddie Norton - Monty giganteggia su tutti, è centro instabile attorno al quale gravitano tutti i personaggi. E' il suo ultimo giorno di libertà, prima di 7 anni di carcere per detenzione e spaccio di droga.
Deve dire addio al mondo per un po', e sa che dopo nulla più sarà come prima. Organizza il proprio ultimo giorno per salutare tutti: il padre, la sua donna, i vecchi amici d'infanzia, purtroppo anche i nuovi amici, malavitosi poco raccomandabili che hanno organizzato per lui una festa d'addio.
Intanto i dubbi continuano ad ossessionarlo: chi ti ha tradito, Monty? Perché ti sei ridotto così?
Troppo tardi per quest'ultima domanda, ormai il dado è tratto.
Ti resta solo un ultimo giorno, poi perderai tutto.
Al di là della splendida trama tratta dal libro di Benioff, quello che è di altissimo livello è la solita, originale regia di Spike Lee.
La macchina da presa gioca con i volti dei personaggi che popolano questa grande mela, questo melting pot che Monty manderebbe volentieri a fanculo ("fuck you" a tutto e a tutti, dice il suo doppio allo specchio).
Si agita nervosa, a volte. Altre volte, in modo quasi neorealistico, si limita a pedinare Monty, a passeggio con il proprio cane per le strade ancora vuote di Mahnatthan, all'alba.
E’ la mano di un regista ormai completamente maturo ad orchestrare il tutto. E lo fa, come sempre, accompagnato da una colonna sonora di altissimo livello, ricca di rap, hip hop, jazz e musica da disco.
Con un richiamo improvviso e coraggioso a Ground Zero, al centro del film, la scena dell’ultimo saluto così violenta e geniale, ed un finale teatrale e commovente, che non può davvero lasciare indifferenti.
(Kitsch)